LIBRI
DISCORSO SOPRA IL CRISTO GIUSTINIANI DI MICHELANGELO BUONARROTI
Il saggio storico-artistico di Nicoletta Giustiniani sulla prima versione Michelangiolesca del Cristo portacroce di Bassano Romano
(Phasar Edizioni - 2021)
Nel 1514 l’allora trentanovenne Michelangelo, già assoluto e indiscusso protagonista del Rinascimento Italiano, si impegna con un gruppo di gentiluomini Romani, tra cui Metello Vari, a consegnare: «una fighura di marmo d’un Christo, grande quanto el naturale, ingnudo, ritto, chor una chroce in braccio, in quell’attitudine che parrà al detto Michelagniolo».
Questo volume, che potremmo definire “quasi” un romanzo storico, traccia le vicende della committenza Michelangiolesca di un “Cristo Portacroce” tra il 1514 ed il 1522. Un lavoro che si rivelò alquanto tormentato che portò alla creazione non di una, ma di due statue. La più nota, esposta a sinistra dell’altare maggiore della chiesa romana di Santa Maria sopra Minerva, è in realtà una “seconda versione” di una prima, creduta perduta, abbandonata dal Maestro che scolpendo si accorse di una vena nera nel marmo proprio all’altezza del volto: «reuscendo nel viso un pelo nero hover linea…». Una statua di un Cristo alto poco più di due metri, dalla forma di un uomo nudo, maturo, nel pieno del vigore fisico che tiene nella destra la Croce e nella sinistra il suo sudario.
Già dal titolo, dal formato 21x15 non usuale per i “libri d’arte”, e sfogliando le pagine del volume, ci si accorge che il testo sia agile e ben strutturato. Leggendo l’introduzione, si comprende anche perché l’autrice abbia scelto la formula “Discorso”. Un omaggio al marchese Vincenzo Giustiniani vissuto a cavallo del Cinque-Seicento, che acquistò, intorno al 1607 sul mercato antiquariale, la “prima versione” Michelangiolesca e che fece rifinire, molto probabilmente, da Gian Lorenzo Bernini.
Vincenzo Giustiniani è personaggio molto in vista nella Roma di inizio Seicento, banchiere ma soprattutto mecenate e collezionista. Non è un artista, ma un uomo dedito alla cultura, al bello e alla piacevolezza del vivere. Il suo gusto è documentato da i suoi numerosi “Discorsi” dedicati: alla pittura, alla musica, all’architettura, alla scultura, ma anche alla caccia e all’arte di viaggiare, agli usi e costumi di Roma e Napoli e all’arte di servire in tavola. “Discorsi” per capire e far capire. La sua prospettiva è quella dell’intenditore non quella del teorico.
Stilisticamente il saggio, pur essendo rigoroso dal punto di vista scientifico, con i giusti riferimenti e note storiche a piè di pagina, se ne differenzia per la struttura. Il libro è una sorta di racconto intimistico ricco di immagini, probabilmente tratto da vicende che la giovane autrice, appartenente alla stessa famiglia Giustiniani, dimostra di ben conoscere.
Non è un saggio storico-artistico “su Michelangelo”, ma la storia di “una statua di Michelangelo”. La storia di un Cristo risorto, che uscito nudo dal suo sepolcro con in mano i segni del suo martirio, ha il volto sereno, quasi disteso, solcato da una “vena nera” sulla guancia sinistra, come una lacrima di dolore per la sofferenza subita da Dio-uomo, ma con la bocca socchiusa “come se respirasse” , improntata ad un lieve sorriso, quello di un Dio benigno che si rivolge con fiducia e speranza all’umanità redenta.
Il “discorso sul Cristo Giustinaini” è un testo scritto in modo molto attuale, direi “fresco”, non autoreferenziale, non tipicamente accademico. Nei primi capitoli sono descritte le vicende della committenza michelangiolesca, ben documentate dai carteggi tra Michelangelo, i suoi committenti ed altri artisti, oltre che da alcune riflessioni sui fondamentali contributi degli storici dell’arte che più di altri hanno avuto modo di studiare la statua. La seconda parte del testo, è sicuramente più innovativa e moderna, del tutto inusuale per un libro d’arte, in cui l’autrice si sofferma, in chiave quasi giornalistica, sulle mostre che hanno accolto la statua del Cristo Giustiniani di Bassano Romano ed alcune interessanti curiosità che rendono la lettura sicuramente piacevole e soprattutto adatta a tutti i lettori, che sicuramente saranno poi stimolati ad andare a visitare i due capolavori Michelangioleschi ben descritti nel libro.
Gli ultimi capitoli sono dedicati ad un ritratto del marchese Vincenzo e alle vicende storiche del ramo Giustiniani di Roma. Un ultima parte è dedicata ad un “terzo” Cristo portacroce, una nuova committenza della famiglia Giustiniani, a cura dell’artista italo-argentino Pablo Damian Cristi, che ispirato ai due michelangioleschi, sta realizzando a Carrara.
A sinistra: La “seconda versione” del Cristo portacroce di Michelangelo a Roma nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva (marmo, cm. 205 senza la croce, cm 250 con la croce e il basamento, 1518-21). A destra la “prima versione” a Bassano Romano nella chiesa di San Vincenzo martire (marmo, cm 201 senza la croce, cm 250 con la croce e il basamento, 1514-16).
DISCORSO SOPRA IL CRISTO GIUSTINIANI DI MICHELANGELO BUONARROTI
di Nicoletta Giustiniani (Phasar Edizioni, Firenze, 2021)
La vena nera, una storia michelangiolesca
Un romanzo storico di Enrico Giustiniani e Gianni Donati (SAGEP Editori)
Un avvincente romanzo storico che si dipana su due piani narrativi, uno intorno al 1620 in una Roma Barocca che vide un suo secondo rinascimento tra committenze artistiche e grandi mecenati, un altro nel 2016 quando due giovani, con l’aiuto di un anziano abate, riannoderanno i fili di un’antica storia che legherà Clelia, una giovane prostituta, Gian Lorenzo Bernini… ed una statua incompiuta di un grande Cristo Portacroce di Michelangelo Buonarroti.
Un avvincente romanzo storico che si dipana su due piani narrativi, uno intorno al 1620 in una Roma Barocca che vide un suo secondo rinascimento tra committenze artistiche e grandi mecenati, un altro nel 2016 quando due giovani, con l’aiuto di un anziano abate, riannoderanno i fili di un’antica storia che legherà Clelia, una giovane prostituta, Gian Lorenzo Bernini… ed una statua incompiuta di un grande Cristo Portacroce di Michelangelo Buonarroti.
Il romanzo si basa su fatti storici realmente accaduti descritti nel diario di un prete corso rivoluzionario Giovanni Battista Roccaserra, vissuto nel XVII secolo, durante l'occupazione Genovese dell'isola,
dove è spesso presente una frase: “Victis,victi resurrecturi” (Ai vinti, vinti che sono destinati a risorgere) che sarà in qualche modo il filo conduttore della storia.
Giovanni, viene prima imprigionato ad Ajaccio, poi trasferito a Roma nel carcere di Tor di Nona ed infine graziato per intercessione del Cardinale Benedetto Giustiniani, qui viene preso sotto l’ala protettrice di Vincenzo Giustiniani fratello di Benedetto, potente banchiere e collezionista eclettico e raffinato. Alla sua corte romana si alterna il meglio del panorama artistico di quegli anni. Giovanni è affascinato da questo mondo così diverso e distante dalla miseria e dal dolore in cui ha lasciato la sua terra.
Proprio in qui giorni il marchese Vincenzo ha acquistato un grande “Cristo Portacroce” iniziato da Michelangelo e poi da lui abbandonato per la presenza di una “vena nera” apparsa nel biancore del marmo a livello del volto.
Intorno alla Statua, a cui non si può non attribuire un certo magnetismo per quella lacrima scura nel marmo, ruota una storia d’amore tra una giovane ex prostituta Clelia e Gian Lorenzo Bernini che nel 1620 completerà l’opera michelangiolesca per conto del Giustiniani. Nel 1644, il Cristo Portacroce fu portato nella Chiesa di San Vincenzo a Bassano Romano e lì rimase dimenticata, ignorata perfino dai nazisti in ritirata nel 1944, fino al 1999 quando fu finalmente riattribuita a Michelangelo.
Nell’estate del 2016 a Bassano Romano, due giovani: Åsa e Davide, con l’aiuto di un anziano abate, riusciranno a riannodare i fili spezzati che legarono una grande scoperta e una storia d’amore incompiuta che avrà un ultimo atto di… “resurrezione”.
Il libro è di sole 100 pagine e si legge tutto di un fiato. I dialoghi sono ben organizzati e le situazioni ben descritte, facilmente se ne potrebbe trarre la sceneggiatura di un film.
Il romanzo ha un lessico ricco e piacevole, vagamente barocco, che porta il lettore ad immedesimarsi nella Roma del tempo. I piani narrativi temporali sono bene inseriti tra di loro. Le vicende storiche sono senz’altro interessanti e tengono il lettore nella suspance fino alla fine.
La committenza artistica del “Cristo Portacroce” di Michelangelo, che vide la creazione non di una ma di due statue: la prima versione a Bassano Romano e la seconda nella Chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma, sono ben documentate e non romanzate, anche perché la vicenda stessa è veramente ….. un romanzo storico!!
PS: Fate un salto a Bassano Romano, un paesino arroccato su uno sperone tufaceo proprio dietro il lago di Bracciano. Li il tempo sembra veramente fermo al seicento. Visitate il Palazzo Giustiniani e il monastero di San Vincenzo dove è custodita la statua del “Cristo con la vena nera”. Andateci durante il primo weekend di Luglio… durante la festa “dei mercatini del Seicento”
Michelangelo, Cristo portacroce, Bassano Romano (Viterbo), chiesa di San
Vincenzo Martire.
La vena nera - una storia michelangiolesca"
Romanzo storico di Enrico Giustiniani e Gianni Donati (Sagep Editori, Genova, 2021
QUESTO LO FACEVO PURE IO MA L'HO COMPRATO
opera prima di Maria Pia Coccia - 2021 Phasar Edizioni
“Questo lo facevo pure io… ma l’ho comprato. Iniziare a collezionare ed
investire in opere d’arte” è il titolo leggero ed accattivante di un testo
completo, serio, ricco di informazioni restando però perfettamente fruibile
e mai noioso. Racconta i mondi ed i modi in cui l’arte contemporanea – oggi
– nasce, cerca riconoscimento, tenta di affermarsi, viaggia, circola,
sparisce per sempre o resta immortale nei secoli. Racconta le relazioni tra
artisti (sedicenti e non), galleristi, mercanti, critici, collezionisti; le
dinamiche proprie di gallerie, case d’asta, fiere, piattaforme on line,
mercatini e mercati. Non vengono fornite ricette per un investimento
“giusto” o “garantito” bensì gli elementi necessari per provare a
sperimentare ed elaborare la propria personale ricetta di successo: il
libro offre un dettaglio equilibrato ed esauriente quanto basta per
stimolare il lettore ad arrivare fino in fondo, chiudere il libro ed aver
voglia di correre a curiosare in prima persona tra i luoghi, i protagonisti
e le dinamiche che l’autrice descrive.
Falsa Partenza, il passo lungo” di Edmondo Mingione, 2010, edizioni interculturali
…Il bandito silenzioso, il rapinatore in punta di piedi, il corridore solitario
Falsa Partenza, il passo lungo”, un libro uscito ormai qualche anno fa, un opera prima di Edmondo Mingione olimpionico di nuoto a Monaco 72.
Un romanzo “nel” mondo della corsa, piuttosto che un romanzo “sulla corsa”. Non è insomma il solito libro di esperienze di running scritto da qualche guru, ma una storia verosimile con una trama avvincente fino all’ultima pagina.
Ci troviamo a Roma, e qualsiasi runner può facilmente individuare a mente i luoghi dove è ambientato. Giovanni il protagonista, lavora in un negozi di dischi, è un runner solitario, che si avvicina alla corsa non da ragazzino, autodidatta, schivo, ma senza saperlo è un vero “campione”, un talento naturale che riesce a far coesistere una grande forza esplosiva prerogativa dei velocisti e la resistenza sulle lunghe distanze.
Giovanni non si confronta con altri atleti. I suoi allenamenti sono maniacali e vanno al di là delle possibilità di qualsiasi sportivo normale. Un corridore che “non compete” se non con se stesso; talmente sfrontato che decide di rendere la sua corsa contemporaneamente una sfida e un obiettivo. Non gareggerà in pista nelle gare cittadine, non vuole arrivare prima degli altri per una gloria effimera, Giovanni corre ha una finalità più “grande”, lui si vuole confrontare con dei veri “inseguitori”. Nella sua testa, l’unico modo che ha, per conoscere il suo valore di atleta è rapinare banche e scappando di corsa…
Non sono i soldi il s
Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro
lass="post_author">redazione 4 agosto 2017 Come uscire dall'austerità senza uscire dall'Eurozona? Grazie all'iniziativa dello stato per recuperare autonomia monetaria e democrazia. Nel volume si propone la creazione di una moneta fiscale complementare all'euro per alimentare la domanda e fare uscire l'economia italiana fuori dalla trappola della liquidità, rispettando comunque le regole e i vincoli (peraltro iniqui e suicidi) dell'Europa.
a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, di seguito la prefazione di Luciano Gallino.
Questo libro a più voci osa proporre, nientemeno, che allo scopo di combattere la disoccupazione e la stagnazione produttiva in corso lo stato, massima istituzione politica, si decida a fare in piccolo qualcosa che le banche private fanno da generazioni in misura immensamente più grande: creare denaro dal nulla – adottando però modi, le banche, che non aiutano a combattere né l’una né l’altra. Scegliendo di entrare nella zona euro, lo stato italiano sì è privato di uno dei fondamentali poteri dello stato, quello di creare denaro (che nella nostra lingua chiamiamo moneta quando ci riferiamo a denaro che ha una sua specifica connotazione nazionale, tipo la sterlina, la corona o il franco svizzero). Per gli stati dell’eurozona, in forza del Trattato di Maastricht soltanto la BCE può creare denaro in veste di euro, sia esso formato da banconote, depositi, regolamenti interbancari o altro; a fronte, però, del divieto assoluto, contenuto nell’art. 123 (mi riferisco alla versione consolidata del Trattato) di prestare un solo euro a qualsiasi amministrazione pubblica – a cominciare dagli stati membri. Per quanto attiene alle banche centrali nazionali della zona euro, esse non possono più emettere denaro; nondimeno sono libere di ricevere miliardi in prestito dalla BCE a interessi risibili. Al tempo stesso accade che le banche private abbiano conservato intatto il potere di creare denaro dal nulla erogando crediti o emettendo titoli finanziari negoziabili.
Tutto ciò ha messo gli stati dell’eurozona in una posizione che si sta ormai rivelando insostenibile. Debbono perseguire politiche economiche fondate su una moneta straniera, appunto l’euro, ma se hanno bisogno di denaro debbono chiederlo in prestito alle banche private, pagando loro un interesse assai più elevato di quello che esse pagano alla BCE. Vari stati della UE – nove per l’esattezza, tra cui Regno Unito, Danimarca e Svezia - hanno invece scelto di restare fuori dall’euro e non a caso hanno affrontato con maggior successo la lotta alla crisi.
Le banche private creano denaro in due modi.[1] Il modo più noto e discusso, in specie a causa del ruolo che esso ha avuto nello scatenare la crisi del 2007, consiste nel concedere un credito, senza togliere un solo euro ad altri correntisti o al proprio patrimonio. L’operazione consiste semplicemente nell’inscrivere sul conto corrente di qualcuno, con pochi tocchi al computer, una certa somma a titolo di prestito. La stessa somma figurerà nel bilancio della banca da un lato come passivo (la somma che la banca si è impegnata a mettere a disposizione del cliente), dall’altro come un attivo (la somma che il cliente ha promesso di restituire). Si stima che il denaro così creato rappresenti nella UE (in questo caso l’eurozona più i paesi non euro) circa il 95 per cento di tutto il denaro in circolazione. Al confronto, le banconote stampate dalla BCE, di cui la TV ci ripropone l’immagine dieci volte al giorno, sono bruscolini.
Un altro modo di creare denaro da parte delle banche private, assai meno compreso e discusso del precedente, anche tra gli economisti, consiste nell’emettere prodotti finanziari che possono venire convertiti facilmente in denaro liquido. Si tratti di obbligazioni aventi per collaterale un debito ipotecario (CDO), di titoli garantiti da un attivo (ABS), di certificati di assicurazione del credito (CDS) o di un qualsiasi altro titolo “derivato” (nel senso che il suo valore deriva dall’andamento sul mercato di un’entità sottostante) inventato dagli alchimisti finanziari, esso può venire venduto in qualsiasi momento al suo valore di mercato. Di solito, o meglio in media, quest’ultimo è di molto inferiore al valore nominale (o nozionale, come dicono gli addetti ai lavori) del titolo, ma nell’insieme si tratta pur sempre di cifre colossali. A fine 2008, ad esempio, l’ammontare nominale dei derivati “scambiati al banco”, cioè al di fuori delle principali borse, si aggirava sui 680 trilioni di dollari, mentre il loro valore di mercato superava i 32 trilioni – corrispondenti, all’epoca, a oltre la metà del Pil del mondo. La facilità con cui è possibile a chiunque trasformare i derivati in liquidità ha indotto un economista austriaco, Stephan Schulmeister, a definirli una forma di “denaro potenziale”. Ciò rende la distinzione cara a molti economisti tra “denaro” (che è liquido) e “patrimonio finanziario” (che invece non lo sarebbe) del tutto priva di senso.[2]
Personalmente credo che la definizione meno problematica dei Certificati di Credito Fiscale che gli autori propongono lo stato italiano emetta, nella misura di un centinaio di miliardi il primo anno, e 200 miliardi l’anno in seguito, sia appunto quella che vede in essi una forma di “denaro potenziale”. I CCF sono distribuiti gratuitamente a vari gruppi di popolazione, a cominciare dai disoccupati o dai giovani in cerca di prima occupazione, e ad imprese che si impegnino ad assumere nuovo personale per realizzare (piccole ma numerose) opere pubbliche. Trascorsi due anni dall’emissione, i CCF possono venire utilizzati per pagare qualsiasi tipo di imposte o tasse dovute allo stato, a regioni o comuni. Ma sin dal momento della loro emissione essi possono venire venduti a terzi, utilizzati come mezzo di pagamento, versati a un creditore a titolo di collaterali e altro. La loro convertibilità in denaro contante o moneta elettronica è istantanea. Il risultato dell’operazione è che nell’economia verrebbero immessi a regime 200 miliardi di denaro potenziale che può diventare in breve denaro fresco, destinato non alla speculazione o ad accrescere l’accumulazione di patrimoni privati, bensì a sostenere in modo mirato e selettivo il soddisfacimento di quelli che Keynes chiamava “bisogni assoluti” da parte di strati di popolazione in difficoltà, e di piccole imprese.
Oltre ad essere erogato gratuitamente dallo stato, il denaro potenziale costituito dai CCF presenta diversi vantaggi rispetto a quello emesso a fiumi dalle banche private in forma di derivati o altro. Proverò a indicarne alcuni:
1) Il loro valore non è soggetto ad alcun rischio di svalutazione sul mercato dei titoli, sia quello borsistico che quello OTC (dove si scambiano i titoli “al banco”). Un CCF da 100 euro alla fine varrà sempre 100 euro, qualsiasi cosa accada sui mercati. Dove invece può accadere che una CDO o un CDS che al momento dell’emissione valevano 100, tempo dopo, quando si vuole rivenderli, valgano la metà o meno.
2) Il denaro potenziale rappresentato dai CCF è denaro legalmente “pieno” (nel senso che si applica all’espressione “legal tender”) poiché essi vengono per definizione accettati per pagare le tasse allo stato. Che è il maggior riconoscimento a cui qualsiasi forma di denaro possa pretendere, quale che sia la sua apparenza o denominazione come moneta circolante in una nazione.
3) I CCF appresentano una prima riconquista da parte dello stato (modesta, ma l’importante è cominciare) del potere di creare denaro a fronte del potere assoluto che finora hanno detenuto le banche private. Questo non sarebbe soltanto un fatto tecnico: sarebbe un evento politico di prima grandezza.
4) I CCF costituirebbero un primo passo indolore, o se si vuole sperimentale, in direzione di una riforma incisiva del sistema finanziario in essere, resa indispensabile dai suoi gravi difetti strutturali (su questo punto essenziale ritorno poco oltre per concludere).
5) Diversamente dai comuni crediti bancari, per i quali la destinazione del credito erogato da parte del debitore è quasi sempre indifferente, fatta salva (e non sempre) la solvibilità di quest’ultimo, i CCF verrebbero emessi per finanziare specifici progetti di utilità collettiva.
La proposta dei CCF non nasce dal nulla. Tiene conto degli studi in materia del Levy Institute, uno dei più noti dipartimenti di economia degli Stati Uniti, e del gruppo di New Economic Perspectives, in specie i lavori di Warren Mosler e L. Randall Wray, che ha studiato l’introduzione in Argentina, ai tempi della crisi, di titoli per certi aspetti simili ai CCF. Tra i precursori dei CCF sono stati ampiamente esaminati i TAN (Tax Anticipation Notes ossia Titoli di Anticipo Tasse), usati per decenni negli Stati Uniti. Quando uno stato o anche un comune di laggiù vuol realizzare un determinato progetto – per dire, ristrutturare un ospedale o ampliare un parco pubblico – ma ha problemi di bilancio, emette una certa quantità di TAN con i quali paga in tutto o in parte le imprese che ci lavorano. A suo tempo, quando lo riterranno conveniente, queste ultime li useranno per saldare debiti fiscali. Una importante differenza dei TAN a confronto dei CCF è che i primi sono emessi in generale da un singolo ente per un valore limitato – in media alcune centinaia di milioni di dollari – mentre nel caso dei CCF si parla di centinaia di miliardi. Inoltre hanno come scopo un singolo progetto ben delimitato, laddove i CCF non hanno, per così dire, confini prestabiliti. Ciò nonostante, nel febbraio 2015 studiosi del Levy Institute hanno suggerito al ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, di emettere una buona dose di TAN per fronteggiare la carenza di liquidità che affligge il paese. Una firma di punta del “Financial Times”, Wofgang Munchau, ha approvato l’idea.
Anche in Europa vari autori si sono soffermati sul concetto di “moneta fiscale”. Tra loro Bruno Théret del CNRS è lo studioso i cui argomenti hanno forse i maggiori contatti con quelli che sorreggono la proposta dei CFF. Vale la pena di citare un suo passo: “Il federalismo fiscale come noi lo proponiamo, in sintonia con diverse esperienze storiche, propone una rottura del monopolio bancario privato dell’emissione di moneta. Esso suppone che gli stati membri dispongano della capacità di emettere una loro propria moneta detta ‘fiscale’ perché garantita dalle loro entrate fiscali. L’idea soggiacente è che le entrate fiscali di domani (entrate anticipate) possono servire di garanzia per una iniezione monetaria fatta oggi. Le monete così create, appunto perché la loro circolazione è ristretta al territorio nazionale (o regionale), contribuirebbero a a rilanciare l’attività in una economia che soffre per la recessione e la sotto-occupazione.”[3] Va inoltre ricordato che due degli autori qui presenti hanno pubblicato nel 2014 un corposo libro sul tema dei CCF.[4] La proposta dei CCF, in sostanza, ha spalle solide.
Nei mesi scorsi diversi commentatori della proposta in questione, partendo dall’appello diffuso dai promotori che viene riprodotto all’inizio del volume, si sono soffermati soprattutto sul fatto se i CCF siano o meno una moneta parallela all’euro, se siano in contrasto con le norme UE, se rappresentino o meno un fattore di inflazione e altro. Si tratta, oso dire, di questioni secondarie. La questione centrale è che questa proposta rappresenta nella UE il primo tentativo concreto di togliere alle banche il potere esclusivo di creare denaro in varie forme, per restituirlo almeno in parte allo stato. E’ una delle maggiori questioni politiche della nostra epoca. Di essa si discute sin dall’esplosione della Grande Crisi Globale (GCG) del 2007, e il nucleo della discussione è la necessità di procedere a drastiche riforme del sistema finanziario, inclusa la sua parte in ombra (equivalente come totale di attivi più o meno a quella operante alla luce del sole),[5] prima che esso provochi una nuova crisi. Le lobbies bancarie internazionali, più l’incompetenza o la complicità dei governi, hanno finora bloccato qualsiasi serio intervento in tale direzione. La riforma di Wall Street, basata sulla legge Dodd-Frank del 2010, non ha minimamente impedito al sistema bancario di diventare a tutt’oggi ancora più grosso, complesso e opaco di quanto non fosse prima del 2007 – appunto le tre caratteristiche che hanno fornito il materiale esplosivo per la GCG. Le riforme in discussione nei parlamenti di Francia, Germania e Regno Unito; l’Unione Bancaria europea da poco varata; le norme di Basilea 3 (più di 500 pagine al posto delle 30 di Basilea 1), equivalgono al tentativo di sollevarsi dalla palude tirandosi per il proprio codino – tentativo riuscito finora, dicono, soltanto al barone di Münchhausen. Al confronto, la proposta dei CCF è un campione di concretezza e aderenza ai problemi reali soggiacenti alla crisi della Ue. Meriterebbe quanto meno di venire seriamente dibattuta.
Anche perché nei riguardi delle riforme del sistema finanziario il vento, da vari segni, sta forse cambiando. Il 15 aprile 2015 la senatrice democratica Elizabeth Warren ha tenuto al Levy Institute una conferenza di eccezionale vigore sul tema “Il lavoro non finito della riforma finanziaria.” Mai un membro influente del Congresso si era spinto così avanti nel chiedere interventi risolutivi in ordine ad alcuni dei principali vizi strutturali del sistema finanziario. In sintesi la senatrice Warren ha chiesto di porre finalmente termine al principio del “troppo grandi [le banche] per lasciarle fallire”; di dividere chiaramente le istituzioni depositarie dalle banche di investimento – che è il dispositivo introdotto dalla legge Glass-Steagall del 1933, abolita da Clinton nel 1999 dopo che Reagan e i suoi avevano già provveduto a svuotarla di ogni efficacia; di impedire alle istituzioni finanziarie di ingannare le persone; di denunciare il lassismo dei regolatori i quali “allorchè le piccole banche infrangono la legge… non esitano a chiudere le banche e gettare i dirigenti in prigione… ma non lo fanno per le maggiori istituzioni finanziarie”. A queste si limtano a dare “uno schiaffetto sul polso” e dire “per favore non fatelo di nuovo”.[6]
Un altro segno di possibili mutamenti sul fronte delle riforme finanziarie proviene dall’Islanda. Su richiesta del Primo ministro, è stato redatto e pubblicato a metà marzo 2015 un lungo rapporto intitolato “La riforma monetaria – Un miglior sistema monetario per l’Islanda”. Il rapporto avanza l’idea che il miglior modo per riformare la finanza consista nell’eliminare del tutto il potere delle banche private di creare denaro, accogliendo la proposta delle associazioni del circuito “Positive Money”, molto attivo nel Regno Unito ma presente in forze in altri 17 paesi, dalla Germania alla Svizzera.[7] La proposta consiste nel restituire per intero allo stato, ad una data prefissata, la sovranità esclusiva quanto a creazione di denaro. Le banche continuerebbero a fare il loro mestiere di accogliere depositi, custodirli, assicurare i flussi di pagamento, ma non potrebbero prestare ovvero dare a credito nemmeno un soldo che non esista già. Il credito potrebbe derivare soltanto o dal loro patrimonio, oppure da risparmiatori che consentono a che il loro denaro sia prestato a terzi, con un minimo di rischio compensato da un tasso adeguato di interesse. La cosa interessante è che il rapporto è caldamente appoggiato da Adair Turner, il quale non è l’ultimo venuto, essendo stato dal 2008 al 2013 presidente dell’Autorità per i Servizi Finanziari del Regno Unito. D’accordo, l’Islanda è un paese piccolo, e la crisi del 2007 l’ha colpita con eccezionale durezza. Ma il problema di cui si occupa il rapporto è assolutamente generale. Bisogna lasciare la situazione qual è, o convenire con Adair Turner che “la creazione di denaro è troppo importante per venire lasciata ai soli banchieri”?[8] Un interrogativo al quale la proposta qui contenuta dei CCF non si limita a rispondere positivamente, ma indica pure una strada praticabile per attuare un principio basilare in essa insito: cominciare su scala limitata a restituire allo stato il potere sovrano di emettere denaro, allo scopo di ovviare rapidamente ai disastri che le politiche di austerità hanno prodotto.
NOTE
[1] Sui diversi generi di denaro creato dalle banche v. L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino 2011, spec. cap VII, e Il colpo di stato di finanze e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013, p. 105 sgg.
[2] S. Schulmeister, Geld als Mittel zum (Selbst)Zweck, in K. P. Liessmann (a cura di), Geld. Was die Welt im Innersten zusammehalt, Zolnay, Vienna 2009, p. 168 e passim.
[3] B. Théret, con la collaborazione di W. Kalinowski, De la monnaie unique à la monnaie commune. Pour un fédéralisme monetaire européen, Institut Veblen pour les reformes économiques, Parigi 2012, pp. 4-5. Corsivo mio.
[4] M.Cattaneo, G. Zibordi, La soluzione per l’euro. 200 miliardi per rimettere in moto l’economia italiana, Hoepli, Milano 2014.
[5] Cfr, Gallino, Il colpo di stato…, op. cit. , cap. 4.
[6] E. Warren, The Unfinished Business of Financial Reform, relazione tenuta il 15/4/2015 alla 24a Conferenza annuale in onore di Hyman P. Minsky, passim. Il testo è disponibile nel sito del Levy Institute.
[7] Un buon punto di partenza per esplorare questo circuito internazionale è il sito inglese http://www.positivemoney.org/.. L’opera più approfondita e attuale in tema di ritorno alla sovranità monetaria dello stato è J. Huber, Monetäre Moderniesierung. Zur Zukunft der Geldordnung: Vollgeld und Monetative, 3a ed., Metropolis, Marburg 2013.
[8] A. Turner, Foreword a F. Sigurjónsson, Monetary Reform – A better monetary reform for Iceland, Reykjavik 2015, p. 8.
il libro è scaricabile gratuitamente in formato pdf dal sito Micromega:
Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro